Animali selvatici

CINEFORUM – Cinecircolo Valsesia
Regia di Cristian Mungiu.
Un film con Marin Grigore, Judith State, Macrina Barladeanu, Orsolya Moldován, Andrei Finti.
Titolo originale: R.m.n..
Genere Drammatico, – Romania, 2022, durata 125 minuti.
Distribuito da Bim Distribuzione.
Consigli per la visione di bambini e ragazzi: +13

Venerdì 27 ottobre, ore 21.00
Domenica 29 ottobre, ore 18.00
Lunedì 30 ottobre, ore 21.00

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Matthias, burbero e taciturno lavoratore di un mattatoio tedesco, litiga con il datore di lavoro e scappa verso Recia, il villaggio di origine in Transilvania. Qui trova una situazione complicata: la moglie Ana sta crescendo il figlio Rudi in maniera troppo protettiva, mentre la sua amante Csilla ha fatto carriera in un grande panificio locale. Quando quest’ultima, per poter ottenere dei benefici UE, si trova a dover assumere braccianti provenienti dallo Sri Lanka, nel villaggio emergono intolleranze sopite a lungo ma più vive che mai.

Benché il titolo originale del film lasci pensare alla Romania, ridotta alle sue sole consonanti, il riferimento ufficiale è a agli esami clinici – R.M.N. è l’acronimo rumeno della risonanza magnetica – a cui viene sottoposto Papa Otto, un anziano pastore rispettato da tutti.

Ma come le macchine passano allo scanner le condizioni neurologiche di Otto, così Mungiu sottopone a un’indagine approfondita lo stato delle cose in Romania e più in generale nella contemporaneità europea, pervasa da tensioni, intolleranza e paura. La scelta di ambientare la vicenda in Transilvania, crogiuolo di etnie (rumena, magiara, rom e ebraica), fedi religiose (cattolicesimo, cristianesimo ortodosso, islamismo) e idiomi eterogenei, non è casuale e ha lo scopo di rappresentare la fragilità di equilibri secolari, pronti a esplodere in fratture dilanianti alla prima scintilla.

Matthias perde il lavoro per un insulto razzista – “zingaro” – ma infligge, insieme ai concittadini più facinorosi, il medesimo contrappasso ai nuovi immigrati singalesi, accusati di “rubare” il lavoro agli abitanti di Recia, che in realtà quel lavoro non hanno nessuna intenzione di praticarlo, per ragioni di denaro o di semplice lassismo, preferendo recarsi all’estero o vivere di sussidio statale.

Una concatenazione di rapporti di vassallaggio che si traducono in infinite guerre tra poveri, tra fratelli, tra vicini, in una disarmante dissezione della natura umana e della sua incapacità di progredire su temi atavici e tuttora attuali. Mungiu ha la forza di rappresentare questo cumulo di contraddizioni mediante gli ormai celebri piani sequenza atti a “inseguire” i personaggi o con scene corali di pregevole fattura: in particolare, tra queste, la sequenza dell’assemblea del villaggio, un’unica inquadratura in cui ogni figura in campo segue un andamento autonomo e manifesta un differente punto di vista, mentre la macchina da presa sceglie di mettere a fuoco o fuori fuoco un intervento o l’altro in base all’andamento emozionale del dibattito.

Ad aggiungere una ulteriore quota di novità nello stile del regista di Un padre, una figlia, è l’abbandono di un realismo tout court in favore dell’applicazione di tecniche e stili realisti a una materia che esonda verso il surreale. La foresta che circonda il villaggio, così come le nuvole grigie e pesanti che si addensano nel cielo, forniscono la cornice ideale per un viaggio nell’inconscio che transita da premonizioni di immagini lasciate fuoricampo e simbolismi enigmatici – il travestimento da orsi – per raccontare l’esplosione dell’elemento ferino presente nella natura umana.

Nel degrado di Papa Otto vive il progressivo decadimento di una società pervasa dalla paura e accecata dall’egoismo e dalla superstizione, in cui le lezioni di secoli di storia sembrano dimenticate e oggetto di un periodico reset. Un ritorno a uno stato di natura che non ha nulla di edenico e ha tutto del perverso simulacro di natura che l’uomo ha modellato a sua immagine e somiglianza.

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