Blue Bayou
Regia di Justin Chon.
Un film con Justin Chon, Alicia Vikander, Mark O’Brien, Emory Cohen, Linh Dan Pham.
Titolo originale: Blue Bayou.
Genere Drammatico, – USA, 2021, durata 119 minuti.
Distribuito da Universal Pictures.
Consigli per la visione di bambini e ragazzi: +13
Domenica 29 Maggio ore 18.00
Lunedì 30 Maggio ore 21.00
Si ricorda che, dal 25 dicembre, per accedere alla visione dei film in sala è necessario il green pass rafforzato, richiesto ed obbligatorio, e di indossare dispositivi di protezione delle vie respiratorie di tipo FFP2
Arrivato negli Stati Uniti a tre anni per essere affidato a una famiglia adottiva, il coreano Antonio LeBlanc è ormai un americano a tutti gli effetti: vive a New Orleans con la moglie Kathy, ama come fosse sua la figlia di lei, Jessie, e sta per diventare padre. Di mestiere fa il tatuatore, ma è perennemente a caccia di lavori per aumentare il salario. Un giorno, durante un controllo della polizia in cui è coinvolto l’ex marito di Kathy, Antonio viene brutalmente arrestato e a seguito di un controllo dell’ufficio immigrazione minacciato d’espulsione. Con precedenti penali e l’impossibilità di dimostrare la sua appartenenza agli Stati Uniti, Antonio viene messo di fronte a una scelta: tornare spontaneamente in Corea o appellarsi al giudice, rischiando però di essere definitivamente deportato.
Il quarto film da regista di Justin Chon, anche sceneggiatore e interprete principale, è un melodramma che scava nei conflitti interiori di un uomo senza patria e nei meccanismi spietati della legge americana.
Da tempo il problema dell’indie americano è soprattutto di carattere stilistico. La scelta estetica di un cinema visivamente sovraccarico, elegante nei movimenti ma eccessivo nei toni (nei colori troppo carichi, nei contrasti fra luce e ombra, nella musica strabordante, nell’artificiosità delle atmosfere), finisce spesso per togliere autenticità a storie che meriterebbero un approccio più controllato e meno grossolano.
Non fa purtroppo eccezione Blue Bayou, quarto film da regista dell’attore e sceneggiatore Justin Chon, americano di nascita e coreano d’origine, che racconta l’odissea di uno “straniero americano” con modalità opposte alla misura e alla delicatezza del recente Minari, scegliendo invece di calcare la mano sul versante melodrammatico della vicenda e di affidarsi a uno stile sovraccarico ed eccessivo. Le cose migliori il film le mostra nello scontro fra Antonio Le Blanc (interpretato dallo stesso Chon), uomo semplice e sfortunato che chiede di essere riconosciuto come padre e lavoratore, e il sistema americano, che regola l’immigrazione secondo una logica più votata a punire che a proteggere.
I confronti di Antonio con l’avvocato difensore rivelano le contraddizioni della legge, il tradimento stesso dell’idea di americanità incarnata ovviamente dal protagonista, ex criminale capace di rimettere in carreggiata la propria vita e dunque dimostrazione vivente del mito della seconda possibilità. Idealmente, questi incontri sono il contraltare dei colloqui di lavoro di Antonio, in cui, senza l’ausilio del controcampo, si osserva sul volto di Chon l’effetto del razzismo implicito delle domande che gli vengono rivolte, tra umiliazione, offesa e smarrimento.
Dove invece il film fallisce è nella gestione narrativa e stilistica di tutto il ricco materiale che mette in campo: nella rappresentazione sopra le righe della violenza della polizia di New Orleans; nella descrizione romantica o patetica del rapporto con la moglie (interpretata da Alicia Vikander); nella scelta di appesantire la sceneggiatura con una serie infinita di sotto trame, dall’amicizia di Antonio con un agente del servizio d’immigrazione (scelta poco plausibile e un po’ ipocrita) alla ripresa dell’attività criminale; dai dialoghi di Antonio con una cliente d’origine asiatica, in cui viene rivelata la forza del suo legame con le radici, alla ricerca della madre naturale… Come se non bastasse la troppa carne al fuoco, la regia di Chon e la fotografia di Ante Cheng e Matthew Chuang contribuiscono a caricare ulteriormente i toni del film, che risultano così grevi, insistiti, a volte esplicitati da dialoghi ridondanti e inutili per l’economia del racconto.
In definitiva, la misura che l’attore Justin Chon dimostra di possedere di fronte alla macchina da presa va dispersa quando il regista decide di passare dietro, lasciando che il film così disperda il proprio potenziale in un mare di buone intenzioni e pessime idee di messinscena, per quanto tecnicamente ineccepibili.
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