I miei giorni più belli

Un film di Arnaud Desplechin.
Con Mathieu Amalric, Lou Roy-Lecollinet, Quentin Dolmaire, Léonard Matton, Dinara Droukarova, Françoise Lebrun, Irina Vavilova, Olivier Rabourdin
Titolo originale Trois Souvenirs de ma Jeunesse.
Drammatico, Ratings: Kids+13, durata 120 min.
Francia 2015. – Bim Distribuzione

PROGRAMMAZIONE:
Venerdì 10 marzo ore 21.00

Dopo un soggiorno in Tagikistan, Paul Dédalus, antropologo francese, rientra a Parigi. Fermato dalla polizia di frontiera, viene interrogato da un funzionario della DGSE (i servizi segreti esteri francesi). Paul Dédalus deve spiegare l’esistenza di un suo perfetto omonimo, un ebreo russo nato il suo stesso giorno, rifugiato in Israele e morto da qualche anno e da qualche parte in Australia. Paul cerca nei ricordi e risale il tempo, indietro fino all’infanzia, alla morte per suicidio della madre, alla sua giovinezza coi fratelli e il padre vedovo inconsolabile, il suo incontro con la dottoressa Behanzin, all’origine della sua vocazione per l’antropologia, e quello con Esther, il suo primo e struggente amore.
È un nome che dona al film di Arnaud Desplechin il suo primo respiro. Chi è Paul Dédalus? Chi è quest’uomo che confrontato con un’identità parallela si mette a sondare la sua? E cosa definisce un uomo? Il nome, la data e il luogo di nascita scritti sul passaporto? Oppure i ricordi incalzanti che si contendono lo spazio nella sua memoria, scrivendo giorno dopo giorno i capitoli di un romanzo intimo? Facciamo un passo indietro. Paul Dédalus è l’eroe de I miei giorni più belli ma il suo nome viene da lontano. Alter ego di James Joyce venuto al mondo con “Ritratto dell’artista da giovane” e poi ‘cresciuto’ nel suo “Ulisse”, Dédalus è il doppio finzionale di Desplechin concepito nel 1996 (Comment je me suis disputé…ma vie sexuelle) e incarnato da Mathieu Amalric. Dodici anni dopo riemerge bambino in Racconto di Natale e sotto il tetto della grande casa roubaisienne della matriarca Junon/Deneuve, diciannove anni dopo ritorna in un film-fiume declinato in tre capitoli che gradualmente crescono in ampiezza e durata, accompagnando il protagonista dall’infanzia all’età adulta.
Seguendo il modello stabilito da François Truffaut, Desplechin riprende il personaggio di uno dei suoi primi film per fargli vivere delle nuove avventure, passate e presenti. (Es)tratto da Comment je me suis disputé…(ma vie sexuelle), Paul Dédalus non è più lo stesso ma non è nemmeno un altro (ieri filosofo, oggi antropologo). Scarti e incoerenze (intenzionali) tra i due Dédalus rendono (im)possibile il proseguimento di un film nell’altro, cortocircuitando e riorganizzando tutto in un egopic che afferma il primato della soggettività e dell’introspezione.
Tuffato nella sua memoria, Paul Dédalus pesca tre ricordi, quelli del titolo francese (Trois souvenirs de ma jeunesse): il primo, breve e violento, fa eco alle opere passate del regista e ad altri grandi momenti del cinema sull’infanzia (Truffaut e Pialat, Rossellini e Buñuel); il secondo rimanda a un altro mito fondatore del cinema di Desplechin, quello dello spionaggio (La Sentinelle), la belle aventure (la gita scolastica in URSS) serve all’autore per concepire un altro Paul Dédalus, il giovane ebreo a cui il nostro, personaggio eroico bigger than life, dona il suo passaporto per raggiungere Israele; il terzo, cuore battente del film, è consacrato al soggetto amato, Esther, adolescente dall’allure fatale che lo fa capitolare per sempre. Il souvenir conclusivo e più lungo è in sostanza un teen-movie, un film ‘per corrispondenza’ (tra Roubaix e Parigi), una storia d’amore ordinaria e magnifica e magnifica perché ordinaria. Un sentimento che non ha niente di eccezionale se non di essere stato vissuto e mai dimenticato.
Scandito dai turbamenti e dagli eccessi della passione, dalle lettere che gli amanti si scrivono e leggono guardando in ‘camera’, il terzo episodio si svolge sullo sfondo della caduta del Muro di Berlino che segna la fine dell’adolescenza e trasloca Paul a Parigi. E a Parigi il protagonista, che prende a pugni la vita e si lascia pestare dalla vita, avvia i suoi studi di antropologia ed elegge, dopo la zia, una nuova madre adottiva, la professoressa Behanzin che ha il nome di un re africano senza regno, eroe mitico della resistenza alla Francia coloniale. Egoista e passionale, Esther è la magnifica ossessione di Paul che apprende la vita, cresce, invecchia e si scopre ancora pieno di un “furore intatto” davanti al suo rivale, l’amico canaglia che lo derubò del suo ‘bene’, e al sentimento irriducibile per Esther, che ha amato, tradito, lasciato, ripreso, ripensato, rivissuto. Desplechin filma il loro desiderio adolescente in quello che ha di più grande e tragico: una libertà che aiuta a determinarsi e a diventare soggetto quando sei giovane, un ‘peso’ di cui non sai più che fare quando sei diventato grande. Creatura e creatore, Paul Dédalus è condiviso da Antoine Bui, Quentin Dolmaire e Mathieu Amalric.
Dei tre corpi-memoria (infanzia, giovinezza, maturità), l’ultimo pronuncia “je me souviens”, risorgendo gli altri in un tourbillon romanzesco, una riconfigurazione ininterrotta che prosegue oggi con un vero-falso prequel, che non si impone subito con evidenza ma trova progressivamente il suo battito. Un movimento retrospettivo che assume la forma del ricordo e un movimento di rilancio che lo rimette in circolo, incarnato in volti sconosciuti (Antoine Bui, Quentin Dolmaire) e splendidamente lontani dal loro doppio più àgé (Mathieu Amalric). Fantasma di carne e sangue con cui s’intendono senza vacillare nello spettatore il credito di un personaggio che non smette di sbocciare.

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