Rapito

CINEFORUM – Cinecircolo Valsesia
Regia di Marco Bellocchio.
Un film con Enea Sala, Leonardo Maltese, Paolo Pierobon, Fausto Russo Alesi, Barbara Ronchi.
Genere Drammatico, – Italia, 2023, durata 134 minuti.
Distribuito da 01 Distribution.

Venerdì 24 novembre, 21.00
Domenica 26 novembre, 18.00
Lunedì 27 novembre, 21.00

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Bologna, 1858. Edgardo Mortara, un bambino ebreo di quasi sette anni, viene sottratto alla sua famiglia e consegnato al “Papa Re” Pio IX. La motivazione ufficiale fornita dal Diritto canonico è che a sei mesi il bambino era stato battezzato e dunque non può che ricevere dalla Chiesa un’educazione cattolica che lo “liberi dalle superstizioni di cui sono imbevuti gli ebrei”. I genitori di Edgardo, Momolo e Marianna, non si rassegnano e continuano a cercare di riavere il figlio, sollevando un caso internazionale che vedrà schierati contro il Papa la comunità ebraica mondiale, la stampa liberale e persino Napoleone III. Ma Pio IX non teme la disapprovazione di nessuno, rispondendo alle richieste di restituire Edgardo alla sua famiglia con un “non possum” e il sorriso serafico di chi si ritiene al sopra delle umane regole. E nonostante il clima sia quello risorgimentale la Chiesa rimane inamovibile, contando sulla sua sedicente inviolabilità.

Marco Bellocchio sceglie una storia che aveva già attratto l’interesse di Steven Spielberg e la realizza con una comprensione profonda del momento storico in cui si è svolta l’azione e della complessità dei rapporti fra Stato e Chiesa.

La fonte letteraria è “Il caso Mortara” di Daniele Scalise, cui si ispira la sceneggiatura di Bellocchio e Susanna Nicchiarelli, e la perfetta ricostruzione di quel tempo (lo scenografo è Andrea Castorina) è ricca di dettagli che ci calano in quel mondo controllato da un potere temporale ubiquito. E l’antisemitismo della Chiesa si manifesta con virulenza, tanto che il Papa arriverà a minacciare il capo della comunità romana di “costringere gli ebrei a tornare nel loro buco”, risigillando la porta del ghetto.

Ma al di là dell’aderenza storico-politica e dei contrasti religiosi, questa storia è fatta per Bellocchio perché racconta il trauma esistenziale di un’identità negata, e le storture che tale diniego provoca nella vita degli uomini. Ben tre volte (il che equivale ad una sottolineatura indelebile), il montaggio parallelo di Francesca Calvelli e Stefano Mariotti incatena situazioni opposte: una sessione di preghiere incrociate, l’una che spera, l’altra che inchioda il bambino al suo destino (quando la scena più bella del film è quella in cui il piccolo Edgardo toglie i chiodi dal corpo di Gesù “ucciso dagli ebrei”); un verdetto di tribunale e una cerimonia confirmatoria; un ostinato “ora pro nobis” e un’irruzione della Storia laica.

E per tre volte l’identità di Edgardo verrà nascosta sotto un telo – la gonna della madre, la tonaca del Papa, il lenzuolo del letto del “rapito” – che ogni volta cambieranno il senso e il tono della domanda “Dove è finito Edgardo?”, rimando ad una scena iconica di Fai bei sogni, dove la madre, come qui, era Barbara Ronchi.

Numerose e ripetute sono le situazioni in cui un essere umano viene umiliato: lo strisciare del capo della comunità ebraica romana (un inedito Paolo Calabresi) o il bacio del pavimento della chiesa, con tanto di leccate, sono degni di un film carcerario, di quelli in cui la mortificazione dei sottoposti viene esercitata per ribadirne la condizione sottomessa. Rapito è un film di una violenza non grafica ma efferata, tanto più grottesca e terribile perché perpetrata con quel senso di titolarità moralista che è al centro di ogni oppressione (non a caso il rapimento di Edgardo viene organizzato da un ex inquisitore) e sostenuta da una struttura di potere che nega o minimizza la gravità di ogni sua scelta con un “non è successo niente”.

È violenta la palette cromatica di Rapito, a cominciare dal sigillo rosso sangue con cui viene ratificato il destino di Edgardo, è violento il contrasto caravaggesco fra le poche luci e le molte ombre (la fotografia è di Francesco Di Giacomo); e supremamente violento è l’atto di strappare un figlio alla madre. Il padre di Edgardo, pur ben intenzionato, non ha la forza ferina di sua moglie, né la sua lucidità nel rifiutare compromessi. Ronchi e Fausto Russo Alesi sono molto efficaci nei ruoli dei genitori, ma il film appartiene ai due interpreti di Edgardo, il bambino Enea Sala e Leonardo Maltese, straordinario in una scena che mostra il contrasto lacerante fra indottrinamento e ribellione; così come appartiene al sorriso untuoso di Paolo Pierobon nei panni di Pio IX, e a Fabrizio Gifuni, l’ex inquisitore Feletti convinto di essere nel giusto.

L’inflessibilità della Chiesa appare lastricata di buone intenzioni e di cieca obbedienza che portano a liquidare ogni nefandezza con il moto “pace e bene” e l’affermazione di agire “per il bene altrui”, senza riconoscere la differenza fra Bene e Male.

Rapito è un horror ammantato di carità cristiana, un “miserere nobis” che cancella ogni colpa con una formula assolutoria. “Ci vorrebbe Attila”, si dirà ad un certo punto, davanti a tale bigottismo, e la regia muscolare di Bellocchio manda altrettanto a gambe all’aria ogni convinzione precostituita e autolegittimante, rifiutando radicalmente ogni sistema di potere basato sul senso di colpa in cui il regista stesso è stato immerso, e dal quale non potrà mai prescindere del tutto, come emerge con chiarezza dal suo cinema, e in particolare dal documentario Marx può aspettare.

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